Cassazione ordinanza 2172 del 24/01/2023 Acquisto di ramo d’azienda solo con adeguate risposte organizzative - sul ricorso iscritto al n. 13865/2018 R.G. proposto da:  
G., elettivamente domiciliato in ROMA [Omissis], presso lo studio dell'avvocato [Omissis] che lo rappresenta e difende unitamente all'avvocato [Omissis]
-ricorrente-
F.G.O., elettivamente domiciliato in ROMA [Omissis], presso lo studio dell'avvocato [Omissis] che lo rappresenta e difende unitamente all'avvocato [Omissis]
-ricorrente-
FALLIMENTO ALFA SRL IN LIQUIDAZIONE, elettivamente domiciliato in ROMA [Omissis], presso lo studio dell'avvocato [Omissis] che lo rappresenta e difende unitamente all'avvocato [Omissis]
-controricorrente-
avverso SENTENZA di CORTE D'APPELLO VENEZIA n. 463/2018 depositata il 27.2.2018.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio dell'1.12.2022 dal Consigliere [Omissis].
FATTI DI CAUSA

Con sentenza n. 463/2018, depositata il 27.2.2018, la Corte d'Appello di Venezia ha rigettato l'appello proposto da G.B.F.J. e F.G.O., già amministratori della Alfa s.r.l. in liquidazione, ora fallita, avverso la sentenza del 13.3.2015 con cui il Tribunale di Vicenza li ha condannati al pagamento in favore del Fallimento Alfa s.r.l. in liquidazione della somma di € 4.761.904,75, oltre accessori, e ciò in accoglimento dell'azione di responsabilità proposta dal curatore della predetta procedura a norma dell'art. 146 L. Fall.
In particolare, il giudice di secondo grado ha condiviso l'impostazione del primo giudice nel ritenere qualificata la violazione da parte dei due amministratori del dovere di diligenza nella gestione dell'impresa e di aver posto in essere una condotta idonea determinare il dissesto della società. Infatti, a pochi giorni dalla sua costituzione, nell'ottobre 2003, la Alfa s.r.l. si era fatta carico, acquistandolo dalla Beta Immobiliare s.r.l., di un ramo d'azienda che presentava un valore negativo, pari ad € 1.671.068 o € 1.500.816, a seconda del metodo di stima prescelto. In tale ramo d'azienda, non era stato acquisito, peraltro il cespite costituito dall'immobile dove si svolgeva l'attività produttiva e la società (poi fallita) aveva, pertanto, dovuto farsi carico di un canone di locazione mensile di € 32.000,00: si era trattato di un'operazione che, valutata nel suo complesso, aveva posto le premesse per il dissesto. La Alfa aveva, infatti, alla luce delle risultanze delle CTU, sempre incrementato i propri debiti aziendali (da € 3.757.590 del 2003 ad e 7.942.448,00 del 2007) che sopravvanzavano di gran lunga il patrimonio netto, aveva sempre operato con una marginalità pressochè assente, rendendo necessario il continuo ricorso ad un maggiore indebitamento. Dunque, sin dal 2003 la società non si era mai trovata in una situazione "fisiologica", l'assetto dato all'impresa dagli amministratori con le operazioni poste in essere nel 2003 non era in grado di generare utili, e se il crollo si era manifestato solo nel 2008 ciò era dipeso da valutazioni dei dati di bilancio relative agli esercizi precedenti non attendibili, soprattutto con riferimento alle voci "rimanenze" e valore dei "crediti" verso clienti.
In sostanza, la società aveva operato su alcune voci del bilancio al fine di coprire le perdite e non far emergere una situazione che era, invece, maturata fin dai primi anni e che trovava le proprie premesse nella sopra descritta operazione dell'ottobre 2003 (la Corte d'Appello ha riportato l'espressione usata dal CTU nominato in primo grado secondo cui il risultato negativo "era scritto sin dall'inizio": la continuazione dell'attività industriale non poteva che portare alla distruzione del capitale come puntualmente avvenuto).
In conclusione, la Corte d'Appello ha ritenuto la sussistenza di un nesso di causalità tra il dissesto e la predetta violazione ascritta agli amministratori, dato che l'esito verificatosi non era che la conseguenza inevitabile delle scelte fatte nel 2003.
Avverso la predetta sentenza hanno proposto ricorso per cassazione G.B.F.J. (d'ora in poi G.) e F.G.O. affidandolo, ciascuno, a tre motivi.
Il fallimento Alfa in liquidazione ha resistito in giudizio con controricorso.
Tutte le parti hanno depositato la memoria ex art. 380.bis.1 c.p.c..
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo il ricorrente G. ha dedotto la violazione dell'art. 360 n. 4 c.p.c. in relazione agli artt. 324,325, 333 112 c.p.c. per non avere la Corte d'Appello rilevato il giudicato interno, formatosi nei confronti delle prime tre domande della curatela, rigettate dal giudice di primo grado, senza proposizione di appello incidentale da parte della curatela.
In particolare, evidenzia il ricorrente che la curatela aveva formulato diverse richieste di risarcimento del danno a titolo di nullità-invalidità della cessione in data 14.10.2003 del capannone (pretendendo un indennizzo di € 3.009.083,60), a titolo di nullità-invalidità del contratto di affitto d'azienda di pari data (pretendendo un indennizzo di € 2.160.000), a titolo di retribuzione e indennizzo concernenti l'assunzione irregolare di operai (pretendendo un indennizzo di e 1.166.000,00 + 37.500), a titolo di negligenza degli amministratori per non essersi attivati con la presentazione di tempestiva istanza di fallimento, così aggravando il dissesto societario (pretendendo un indennizzo di € 4.761.904).
Le prime tre pretese, ricondotte alla generica responsabilità ex art. 2476 c.c., erano state rigettate dal giudice di primo grado, che aveva condannato gli amministratori solo per l'ultimo profilo risarcitorio sopra indicato, mentre la curatela non aveva proposto appello incidentale. Ne consegue che, ad avviso del ricorrente, "non vi è spazio giuridico per resuscitare responsabilità non accertate e definitivamente respinte".
2. Con il secondo motivo il G. ha dedotto la violazione degli artt. 224 comma 1° n. 2 e 146 legge fall. e 2476 c.c.
Sostiene il ricorrente che la responsabilità invocata dalla procedura, per non essersi i convenuti "adoperati per fare dichiarare il fallimento della società il più presto possibile" - che aveva determinato, a carico di questi ultimi, il riconoscimento di un danno di € 4.761.904 - trova il proprio parametro legale di riferimento nell'art. 224 comma 1° legge fall. normativo. Orbene, i due amministratori, rinviati a giudizio proprio in relazione alla contestazione di cui alla predetta norma penale, erano stati assolti con sentenza definitiva n. 112/2016 del Tribunale penale di Vicenza.
Lamenta il ricorrente che la Corte d'Appello, senza applicare il parametro legale di riferimento di cui all'art. 224 comma 1° n. 2 legge fall., aveva deciso di individuare in capo agli amministratori la diversa responsabilità ex art. 2476 c.c. con riferimento agli atti negoziali dell'ottobre 2003, senza tenere conto del giudicato interno, nel frattempo, formatosi sul rigetto di tale responsabilità.
In sostanza, la Corte d'appello, anziché valutare il comportamento degli amministratori nella gestione societaria, aveva valutato il prius (estraneo al devolutum in quanto rigettato dalla sentenza di primo grado) della costituzione della società, ravvisando in essa una responsabilità, così eccedendo i limiti di cui all'art. 112 c.p.c.
Ad avviso del G., la responsabilità discendente dal compimento degli atti di cessione e affitto d'azienda, in quanto presupposto della successiva insolvenza fallimentare, avrebbe potuto astrattamente ravvisarsi solo se non si fosse già formato il giudicato interno sulla esclusione di responsabilità degli amministratori con riferimento sia alla dedotta nullità-invalidità della cessione di ramo d'azienda priva dell'immobile, sia all'allegata nullità-invalidità del contratto di affitto del capannone.
3. Anche il ricorrente F. ha dedotto la violazione dell'art. 360 n. 4 c.p.c., in relazione agli artt. 112 e 324 c.p.c., sostenendo che la mancata impugnazione da parte della curatela, in via incidentale, della sentenza di primo grado, avrebbe comportato la formazione di un giudicato parziale.
Anche ad avviso del F., la Corte d'Appello avrebbe deciso "oltre" la domanda svolta dalla curatela, accogliendo la richiesta risarcitoria della stessa sulla scorta di argomenti, fatti e condotte degli amministratori diversi da quelli che avrebbero dovuto essere oggetto della cognizione del giudice d'appello.
In particolare, il giudice d'appello avrebbe dovuto analizzare esclusivamente quanto accaduto dalla data dell'operazione del 2003 sino all'anno 2008.
L'analisi della Corte d'Appello era stata, invece, concentrata sulla convenienza /economicità dell'operazione di acquisizione del ramo di azienda, prescindendo dai risultati del periodo successivo.
L'oggetto della valutazione era stata spostata dal ritardo colposo nella richiesta di fallimento all'esame dell'operazione compiuta nel 2003 e dei dati di bilancio successivi, senza che tale questione fosse stata sollevata dalla curatela, con conseguente violazione del principio dispositivo e della corrispondenza tra chiesto e pronunciato.
4. I primi due motivi del ricorso del G. ed il primo motivo del ricorso del F., da esaminarsi unitariamente in relazione alla omogeneità delle censure in essi contenuti ed alla stretta connessione delle questioni trattate, sono infondati nonché inammissibili.
La sentenza impugnata (vedi pagg. 3 e 4), nel ricostruire l'oggetto del giudizio ed il contenuto della sentenza di primo grado, ha evidenziato nella parte "fatto e svolgimento del processo" che "con tale pronuncia il Tribunale ha accolto l'azione di responsabilità contro gli amministratori della società fallita, proposta dal curatore ai sensi dell'art. 146 L. Fall. Agli odierni ricorrenti, già amministratori e soci della Alfa, era stato rimproverato dalla curatela di aver depauperato il patrimonio della società, attraverso l'acquisizione nell'ottobre del 2003, da altra società di cui gli stessi F. e G. B. erano amministratori (la Beta Immobiliare s.r.l.), di un ramo d'azienda gravemente indebitato e mutilato del cespite patrimoniale di maggior valore costituito da un immobile. Sempre secondo la ricostruzione della Corte d'Appello, la procedura aveva contestato agli amministratori di aver protratto l'attività imprenditoriale senza chiedere il fallimento della società, nonostante quest'ultima, fin dal momento delle operazioni dell'ottobre 2003, presentasse criticità tali da imporne lo scioglimento e nonostante la Alfa, nel prosieguo, avesse cumulato ulteriori debiti, fino a determinare, nel bilancio 31.8.2008, perdite per € 6.813.680".
La Corte d'Appello, anche nel sintetizzare il secondo motivo d'appello (pag. 4 a metà), ha evidenziato un punto fondamentale nella ricostruzione del contenuto della sentenza di primo grado:" La sentenza impugnata imputa agli appellanti di non avere richiesto il fallimento già nell'anno 2003, ma non considera quanto accaduto successivamente al 2003…".
La Corte d'Appello, dunque, nel ricostruire le contestazioni mosse dalla curatela agli amministratori ed il contenuto della sentenza di primo grado, ha messo in luce, da un lato, che la procedura aveva mosso agli organi amministrativi la contestazione che, sin dal momento delle operazioni dell'ottobre 2003, costoro avevano protratto lo svolgimento dell'attività imprenditoriale senza chiedere il fallimento della società, nonostante questa presentasse criticità tali da imporne l'immediato scioglimento e, dall'altro, che la stessa sentenza impugnata aveva imputato agli stessi amministratori la mancata richiesta di fallimento già con riferimento all'anno 2003.
Emerge quindi una realtà processuale completamente diversa da quella rappresentata dagli odierni ricorrenti nel proprio ricorso, ovvero, come sopra già anticipato, che la Corte d'Appello avrebbe, arbitrariamente, spostato la valutazione alla stessa demandata, dal ritardo colposo nella richiesta di fallimento all'esame dell'operazione compiuta nel 2003 e dei dati di bilancio successivi, senza che di tali questioni fosse stata investita da parte della curatela.
In particolare, i ricorrenti sostengono che, non avendo la sentenza di primo grado accolto le richieste di indennizzo formulate dalla curatela con riferimento alla cessione e all'affitto del ramo d'azienda del ramo, la Corte d'Appello non avrebbe potuto valutare il comportamento tenuto dagli amministratori in occasione di tali operazioni, essendo tale questione estranea al devolutum demandato alla cognizione della Corte d'Appello.
Tale prospettazione non può essere accolta.
La sentenza impugnata, nel rispondere al secondo motivo d'appello, ha ben chiarito, a pag. 6, che ciò che ha portato il Tribunale a ritenere i convenuti responsabili del danno patito dai creditori non è stata tanto l'invalidità dei contratti di cessione e affitto d'azienda, quanto l'efficienza causale che l'operazione complessiva, nella quale si erano iscritti i due contratti, ha avuto rispetto alla crisi dell'impresa e al maturare dell'insolvenza: essendo anche tale aspetto già stato debitamente considerato dal giudice di primo grado, destituito di fondamento è l'assunto dei ricorrenti, secondo cui la Corte d'Appello avrebbe violato sia l'art. 324 c.p.c., sia il principio della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato.
In conclusione, avuto riguardo alla ricostruzione da parte della Corte d'Appello (non confutata dai ricorrenti se non con mere asserzioni) delle domande della curatela e del contenuto della sentenza di primo grado, non è dato comprendere per quale motivo la curatela avrebbe dovuto proporre appello incidentale. La sentenza di primo grado aveva, infatti, deciso conformemente alle richieste della stessa curatala, imputando agli amministratori di non aver presentato la richiesta di fallimento già nell'anno 2003.
Va, inoltre, osservato che, come sopra anticipato, i ricorrenti, nel descrivere il contenuto delle domande della curatela e del contenuto della sentenza di primo grado in modo assolutamente diverso da come rappresentato dalla Corte d'Appello, si limitano a deduzioni di natura meramente assertiva, senza rispettare il principio di autosufficienza del ricorso.
Entrambi i ricorrenti non riportano, infatti, sufficienti stralci dell'atto di citazione della curatela o della sentenza di primo grado idonei ad evidenziare la manchevolezza da essi denunciata, se non accedendo direttamente all'atto processuale indicato, attività che, tuttavia, non è consentita a questa Corte.
In proposito, è orientamento consolidato di questa Corte che il ricorso soddisfa il requisito dell'autosufficienza quando presenti tutti gli elementi necessari a porre il giudice di legittimità in grado di avere la completa cognizione della controversia e del suo oggetto, di cogliere il significato e la portata delle censure rivolte alle specifiche argomentazioni della sentenza impugnata, senza la necessità di accedere ad altre fonti ed atti del processo. (Cass. n. 1926 del 3.2.2015; vedi anche Cass. n. 19018/2017 e Cass. n. 13312/2018).
5. Con il secondo motivo il ricorrente F. deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 1218, 1223 e 2697 c.c.
Lamenta il ricorrente che la curatela, nell'individuare la condotta illecita degli amministratori nell'aver continuato ad operare nonostante la drammatica situazione che si stava delineando sul conto perdite, (anziché adoperarsi per far dichiarare il fallimento della società il prima possibile), non avrebbe dimostrato la sussistenza del nesso di causalità tra condotta e danno, difettando totalmente tale prova.
6. Il motivo è inammissibile.
La Corte d'Appello, dopo un lungo percorso argomentativo sviluppato da pag. 8 a pag. 10 della sentenza impugnata (sopra riassunto nella parte narrativa alle pagg. 1 e 2), ha ritenuto dimostrato il nesso di causalità tra il dissesto e la violazione ascritta agli amministratori, sul rilievo che l'esito poi verificatosi non era che la conseguenza inevitabile delle scelte fatte dagli amministratori nel 2003: gli stessi, dopo aver acquisito un ramo aziendale gravemente indebitato, non avevano dato all'impresa un assetto organizzativo in grado di generare utili; vi era stato un progressivo incremento dell'esposizione debitoria, mascherata per alcuni anni da apporti di liquidità, comunque inidonei, e da accorgimenti di bilancio (sopravvalutazione dei crediti verso clienti e delle rimanenze) artatamente effettuati per non far emergere le perdite.
Non vi è dubbio che la valutazione compiuta dalla Corte territoriale sia immune da censure.
La Corte d'Appello ha coerentemente individuato la condotta illecita degli amministratori ed il nesso di causalità tra condotta e danno nelle scelte effettuate dai medesimi in occasione dell'acquisizione del ramo di azienda. In particolare, il giudice d'appello ha rimproverato agli amministratori non tanto l'aver acquisito un ramo aziendale che presentava un rilevante passivo quanto la mancata adozione, sin dal momento di tale acquisizione, di adeguate risposte organizzative per contrastare l'insolvenza, la quale era stata, invece, mascherata ed occultata con meri accorgimenti di bilancio, così determinando un accrescimento abnorme del danno.
Il giudice d'appello ha quindi fatto buon uso del principio di diritto - cui questo Collegio intende dare continuità - secondo cui, in materia di responsabilità degli amministratori di società di capitali, l'insindacabilità del merito delle scelte di gestione trova un limite nella ragionevolezza delle stesse da compiersi "ex ante" secondo i parametri della diligenza del mandatario, tenendo conto della mancata adozione delle cautele, delle verifiche e delle informazioni preventive, normalmente richieste per una scelta di quel tipo e della diligenza mostrata nell'apprezzare preventivamente i margini di rischio connessi all'operazione da intraprendere (vedi ex plurimis Cass. n. 15470/2015). In tale prospettiva, tenuto conto che l'acquisizione di rami aziendali non è di per sé irragionevole se avviene a prezzi vantaggiosi e in presenza di un piano di rilancio, corretta è l'impostazione della Corte d'Appello che ha ritenuto costituire atto di mala gestio l'acquisto di un ramo d'azienda gravemente indebitato e dissestato, ove non sia accompagnato (come nel caso di specie) dalla contestuale adozione di adeguate risposte organizzative idonee a consentirne il rilancio.
Come anticipato, la Corte d'Appello di Venezia ha fatto buon uso di tale principi, compiendo una valutazione che, oltre ad essere giuridicamente ineccepibile, deve essere sottratta al sindacato del giudice di legittimità in quanto adeguatamente motivata (Cass. n. 9985/2019).
Infine, del tutto infondata è la dedotta violazione dell'art. 2697 c.c., atteso che, per costante giurisprudenza di questa Corte, la violazione del precetto di cui alla norma predetta è configurabile soltanto nell'ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l'onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni e non, invece, laddove, come nella specie, oggetto di censura sia la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti (Cass. n. 13395/2018).
7. Con il terzo motivo il ricorrente F. ha dedotto l'omesso esame di fatti decisivi per il giudizio ex art. 360 comma 1° n. 5 c.p.c.
Deduce il ricorrente di aver evidenziato nella propria comparsa conclusionale in appello la discontinuità tra la "vecchia" e nuova "società", data, in particolare, sia dalla considerevole riduzione del personale, che aveva determinato una radicale ristrutturazione del ramo d'azienda oggetto di cessione, sia dal finanziamento soci eseguito successivamente all'operazione del 2003, che aveva comportato che il patrimonio netto della società non era mai stato negativo. Questi due fatti decisivi non sarebbero stati esaminati dalla Corte d'Appello.
8. Il motivo è infondato nonché inammissibile.
In primo luogo, con riferimento alla dedotta riduzione del personale del ramo d'azienda acquisito dalla società fallita, va osservato che il ricorrente ha apoditticamente e genericamente allegato di avere evidenziato la decisività di tale fatto nella comparsa conclusionale in appello, senza, tuttavia, neppure dedurre che tale elemento fosse stato specificamente indicato nell'atto di appello ex art. 342 c.p.c. In ogni caso, il ricorrente non ha neppure provveduto ad una compiuta illustrazione delle ragioni per le quali la dedotta riduzione avrebbe consentito di invertire il grave trend negativo del ramo aziendale acquisito, di talchè non vi è non solo la certezza, ma neppure la probabilità che l'esame di tale elemento avrebbe condotto la Corte d'Appello ad un esito diverso della lite (vedi, sul punto, Cass. n. 16812 del 26.6.2018).
In ordine ai finanziamenti dei soci, tale elemento - a differenza di quanto dedotto dal ricorrente - è stato, invece, valutato dalla Corte d'Appello, la quale ha evidenziato che gli apporti di liquidità, unitamente al mascheramento delle perdite ottenuto con accorgimenti di bilancio, avevano avuto (solo) l'effetto di far emergere in ritardo una situazione che era maturata fin dai primi anni della società, atteso che con le operazioni dell'ottobre 2003 erano già state poste le premesse per il dissesto.
9. Con il terzo motivo il ricorrente G. ha dedotto la violazione dell'art. 92 comma 2° c.p.c., per avere la Corte d'Appello escluso la presenza, nel caso di specie, della reciproca soccombenza, così negando ogni possibilità di applicabilità dell'istituto della compensazione delle spese.
Deduce il ricorrente che la sentenza di primo grado ha rigettato tre domande della curatela - sopra descritte al punto 1 - accogliendo solo la quarta, con la conseguenza che avrebbe dovuto regolare le spese secondo il parametro dell'art. 92 comma 2° c.p.c..
10. Il motivo è inammissibile.
Va osservato che è principio consolidato di questa Corte di legittimità che il sindacato della Corte di cassazione è limitato ad accertare che non risulti violato il principio secondo il quale le spese non possono essere poste a carico della parte vittoriosa, con la conseguenza che esula da tale sindacato, e rientra nel potere discrezionale del giudice di merito, sia la valutazione dell'opportunità di compensare in tutto o in parte le spese di lite, tanto nell'ipotesi di soccombenza reciproca, quanto nell'ipotesi di concorso con altri giusti motivi, sia provvedere alla loro quantificazione, senza eccedere i limiti minimi, ove previsti, e massimi fissati dalle tabelle vigenti (vedi Cass. n. 19613 del 4.8.2017).
Nel caso di specie, caratterizzato dall'accoglimento parziale della domanda attorea, questa Corte non può dunque sindacare la decisione del giudice di merito di condannare la parte incontestabilmente soccombente (sia pure in modo parziale rispetto alla domanda originaria) al pagamento delle spese di lite.
Le spese di lite seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.

P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Condanna ciascun ricorrente al pagamento, in favore della curatela controricorrente, delle spese processuali, che liquida in € 25.200, di cui € 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell'art. 13 comma 1 quater del DPR 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte di ciascun ricorrente dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1° bis dello stesso articolo 13.