Per azienda coniugale si intende l’impresa gestita da entrambi i coniugi, costituita dopo il matrimonio, i cui beni rientrano nel regime di comunione legale. Entrambi i coniugi sono quindi imprenditori ma la disciplina che regola il rapporto d’impresa non è quella societaria bensì quella prevista per l’amministrazione e la rappresentanza della comunione legale. Amministrazione disgiunta per gli atti di ordinaria amministrazione, congiunta per la straordinaria amministrazione, con intervento dell’Autorità giudiziale in caso di dissenso e annullabilità entro un anno dell'atto compiuto da un solo coniuge.
 
I creditori dell’impresa possono agire su tutti i beni della comunione legale in concorrenza con gli altri creditori ma non hanno alcuna prelazione sui beni aziendali, poiché trattandosi di azienda coniugale i cui beni rientrano perciò nel complessivo patrimonio in comunione legale tra i coniugi imprenditori.
I creditori possono altresì agire anche sui rispettivi patrimoni personali di ciascun coniuge ma soltanto nella misura della metà del credito vantato ed esclusivamente in via sussidiaria alla preventiva escussione della comunione legale.
Qualora l’azienda fosse precostituita rispetto alla celebrazione del matrimonio, la titolarità dell’azienda rimarrebbe sotto la disciplina generale dell’impresa o della società di fatto mentre gli utili e gli incrementi entrerebbero a far parte della comunione legale.
 
L’azienda preesistente quindi resta autonoma rispetto al patrimonio in comunione legale e i creditori della stessa non subiscono il concorso dei creditori personali dei coniugi sul complesso dei beni organizzati per l'esercizio dell'impresa, ovverosia l’azienda; fatta eccezione, come detto, per gli utili e gli incrementi.
 
Diverso dalla cosiddetta azienda coniugale è l’istituto della impresa familiare di cui all’art. 230 bis del codice civile.
L’impresa familiare attiene alla collaborazione con l’imprenditore del coniuge e dei parenti entro il terzo grado (figli, nipoti, fratelli), degli affini (parenti del coniuge) entro il secondo grado. 
L’imprenditore, è e resta unico, quale datore di lavoro, gestore dell’impresa e proprietario dell’azienda.
La disciplina di cui all’art. 230 bis del codice civile è finalizzata alla tutela del lavoro dei familiari, per evitare il loro sfruttamento illecito. L’istituto è perlopiù considerato come una fattispecie complessa tra impresa individuale e impresa collettiva, invero, può dirsi individuale nei rapporti con i terzi, collettiva nei rapporti interni tra l’imprenditore e i suoi familiari lavoratori che seppur dipendenti, partecipano agli utili e incrementi, hanno diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia ed hanno altresì diritto di prelazione in caso di divisione ereditaria o di vendita.

La gestione dell’impresa familiare è in piena autonomia dell’imprenditore soltanto per l’ordinaria amministrazione, diversamente, le decisioni relative all’impiego degli utili e degli incrementi, come gli indirizzi produttivi, la gestione straordinaria in generale e l’eventuale cessazione dell’impresa o cessione di un ramo d’azienda spetta invece alla maggioranza dei componenti.
In particolare, in occasione del trasferimento del diritto di partecipazione all’impresa familiare, è richiesta l’unanimità dei consensi.
Ciascun partecipante può recedere dall’impresa familiare, previo preavviso (recesso ad nutum) oppure immediatamente per giusta causa; altrettanto ciascun familiare può essere escluso dall’impresa in caso di suo danneggiamento della stessa.
In caso di divorzio o separazione personale dei coniugi, o comunque di venir meno del vincolo parentale-familiare, spetta invece solo all’imprenditore la decisione sulla compatibilità o meno di una continuità della collaborazione intrapresa.

L’impresa familiare cessa, in ogni caso, di esistere se muore o fallisce il titolare.
Al riguardo, si ritiene opportuno evidenziare un breve cenno ai cosiddetti patti di famiglia, ovverosia quei contratti che l’imprenditore può stipulare con i propri discendenti, anche in deroga al divieto dei patti successori ex articolo 458 del codice civile, aventi ad oggetto il trasferimento, in tutto o in parte, di un’azienda o di partecipazioni societarie, tanto che può trattarsi di veri e propri accordi successori.
 
Articolo redatto dall'Avv. Andrea Cruciani