L’espressione “economia civile” compare per la prima volta nel lessico politico-economico nel 1753, anno in cui l’Università di Napoli istituisce la prima cattedra al mondo di economia, affidandone la titolarità ad Antonio Genovesi, la cui opera fondamentale del 1765 reca per titolo Lezioni di economia civile. Alcuni decenni dopo, nel 1776 Adam Smith in Scozia pubblicò la sua opera “La ricchezza delle nazioni” dove si trova  il distillato di un altro paradigma, quello dell’economia politica.

Una prima differenza tra i due paradgmi la troviamo già a livello etimologico: in “economia politica”, il termine greco pòlis si riferisce alla pòlis greca, un modello di città non inclusivo che tendeva a escludere donne, analfabeti e i più poveri. Al contrario, in “economia civile”, il termine latino civitas si riferisce alla civitas romana, modello di inclusione culturale. L’idea di base dell’economia civile è infatti che tutti, indistintamente, debbano poter partecipare all’attività economica, adeguando le condizioni alle capacità e alle possibilità di ogni attore che vi partecipi. Nel caso dell’economia politica, al contrario, l’attività economica è per i più “capaci”, ovvero i più produttivi.

L’Economia Civile è un’economia di mercato e in quanto tale si basa sui seguenti principi:
-concetto di divisione del lavoro, ovvero la specializzazione delle mansioni che ha come conseguenza la realizzazione di scambi endogeni (differenti da quelli “esogeni”, derivanti dall’esistenza di un sovrappiù) che, quindi, vanno ad aumentare la produttività del sistema in cui si inseriscono;
-concetto di sviluppo, che, da un lato, presuppone, rifacendosi ad una matrice culturale giudaico-cristiana, l’esistenza di solidarietà intergenerazionale, ovvero di interesse da parte della generazione presente nei confronti di quelle future, mentre, dall’altro, si lega a quello di accumulazione;
-concetto di libertà di impresa, secondo il quale chi è in possesso di doti imprenditoriali deve essere lasciato libero di iniziare un’attività. Per doti imprenditoriali si intendono: la propensione al rischio (ovvero l’impossibilità di avere garanzia dei risultati derivanti dall’attività imprenditoriale), l’innovatività o creatività (ovvero la capacità di aggiungere in maniera incrementale conoscenza al prodotto/processo produttivo), l’ars combinatoria (l’imprenditore, conoscendo le caratteristiche dei partecipanti all’attività imprenditoriale, le organizza per ottenere il risultato migliore);
-il fine, ovvero la tipologia di prodotto (bene o servizio) da ottenere. È in particolare quest’ultimo principio a differenziare l’Economia Civile dall’economia di mercato capitalistica: se, infatti, quest’ultima ha assunto come fine proprio del suo agire l’ottenimento del cosiddetto bene totale, l’Economia Civile persegue, invece, ciò che va sotto il nome di bene comune. 
L’economia civile cerca di tradurre la convinzione che una buona società è frutto sia di un mercato che funziona sia di processi che attivano la solidarietà da parte di tutti i soggetti. Quindi l’attenzione alla persona non è elusa e neppure rimandata alla sfera privata o a qualche forma di pubblica filantropia che si limita a curare le disfunzioni del mercato. L’attività economica ha dunque bisogno di virtù civili, di tendere al bene comune più che alla ricerca di soddisfazioni individuali.

Per l’economia politica di Adam Smith il fine è quello della massimizzazione del bene totale, per l’economia civile "italiana" il fine è quello di massimizzazione del bene comune. Due concetti, quello del bene totale e del bene comune, che possono apparentemente sembrare simili. In realtà la differenza è sostanziale. Il bene totale può essere considerato infatti come una sommatoria, per cui il risultato finale, totale, di bene comune, può essere raggiunto e rimanere positivo anche nel momento in cui un addendo (ovvero un gruppo sociale, o un particolare attore nel sistema economico) venga annullato. Per “bene”, in questo caso, si intende quindi esclusivamente quello delle preferenze individuali. Il bene comune è invece inteso come una moltiplicazione, in cui se anche un solo fattore si annulla, il risultato finale si annulla a sua volta. Nella prospettiva del bene comune non è quindi possibile lasciare indietro nessuno, poiché anche nel caso in cui si escluda dal bene comune il più piccolo dei gruppi sociali, esso si annulla per tutti.

L’economia civile riconosce, dunque, centralità alla persona, collocando le proprie radici nell’Umanesimo civile e nell’Illuminismo del nostro Paese.

Serve oggi una nuova cultura d’impresa per superare l’idea che l’economia debba essere fine a sé stessa e irrimediabilmente piegata alla legge del massimo profitto e per concepirla, invece, come strumento al servizio del bene comune. I mercati non stanno in piedi se non sono sorretti da altri fattori non economici come la fiducia, la cooperazione e il capitale relazionale e umano.

Pensiero Economico
Per gli americani, e dunque per il mondo intero la storia del pensiero economico nasce nel 700 con Adam Smith. Non per colpa loro, ma per colpa di noi italiani, che non abbiamo tradotto i nostri libri.
I libri di Antonino da Firenze, che Schumpeter considera il più grande economista prima di Adam Smith, non sono mai stati tradotti, così come quelli di Bernardino da Siena.
Il risultato è che, parlando con gli studiosi americani, si nota davvero una chiusura, perché per loro la storia del pensiero economico nasce nella prima metà del 700, mentre per noi nasce nell’XI secolo.

 

Fonti
Genovesi, A. (1852). Lezioni di economia civile (Vol. 3). Cugini Pomba e Comp edit.
Zamagni, S. (2011). Lavoro, disoccupazione, economia civile. Frey L., Marcozzi S.(a cura di), Economia.
Zamagni, S. (2015). Beni comuni e economia civile. Beni comuni e cooperazione.

 

Articolo 41 della Costituzione italiana: L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali.

Aristotele e la giusta misura
Crematistica è l’arte di guadagnare illimitatamente e di accumulare beni e ricchezza che Aristotele condanna e stigmatizza come via perversa del perseguimento dell’accumulo illimitato a tutti i costi e quindi come sistema contro natura.
Oikonomia è l’arte dell’oikos (dimensione familiare e della casa) volta alla riproduzione della comunità prima familiare e poi della società civile che il filosofo valorizza perché basata su bisogni finiti e limitati che recuperano l’etica della giusta misura e quindi come sistema secondo natura.

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